COME ERAVAMO / MAGGIO – Attività scomparse a Carignano, per non dimenticare
COME ERAVAMO / MAGGIO
Attività scomparse a Carignano – Per non dimenticare
Alcune di queste note derivano da testimonianze raccolte negli anni, a suo tempo pubblicate insieme ad altre informazioni: ma ora desidero evidenziarle approfondendo alcune delle attività scomparse carignanesi.
Sul numero di ottobre 2010 avevo riferito, fra l’altro, che la signora Domenica Curletto Tabusso (1908-2013), come primo lavoro, e per un anno e mezzo, era stata assunta presso la fabbrica della famiglia Chiatellino, in piazza (attuale) Carlo Alberto, al primo piano, dove c’è il lungo balcone. Erano nove lavoranti: otto dipanavano le matassine in cotone tramite il “vindo” (arcolaio), ciascuna su una spola e la nona univa poi più fili su una spola grande da trasferire alla fabbrica di fiammiferi (brichèt) per lo stoppino dei cerini.
Verso il 1900, in quello che era stato il sito del convento dei Cappuccini, dopo una raffineria di zucchero, il signor Remonda aveva impiantato una fabbrica di fiammiferi, forse quella del signor Tortone del vicolo Ritanotto, che occupava oltre agli operai numerose operaie. Confezionavano con mano svelta le scatole per cento legnetti in carta resistente e con una strisciolina di polvere di vetro. Briciole per chi non poteva fare di più. Poi un rovescio di fortuna, pare un fallimento di banca o simile, obbligò il bravo industriale ad associarsi alle Fabbriche Riunite Fiammiferi di Milano (c’è una conferma di tale situazione nel volume “Un secolo di cronache carignanesi”, pag.411/413). Ripiego di breve durata. Il 23 marzo 1928 ogni attività cessò e gli operai furono licenziati.” (da “Appunti per una storia civile di Carignano” del teologo Lusso). Ritengo opportuno segnalare che su “Un secolo di cronache carignanesi” a pag. 412 si fa cenno all’esistenza di un “sindacato bianco” il cui funzionario era il signor Attilio Frossati (1898-1973).
Nel corso dell’incontro (aprile 2013) la signora Francesca Giuseppina (per tutti Pina) Ballari Nicola (1923-2017) aveva ricordato che era stata alla Riv di Torino fino allo scoppio della guerra ma, in seguito al bombardamento nella zona Molinette, anche su insistenza della famiglia, era tornata a Carignano e aveva trovato lavoro presso la fabbrichetta del signor Rittatore, situata nel cortile della casa di don Rodolfo, proprio di fronte all’allora Regio Ospizio, attuale Opera Pia Faccio Frichieri. Erano occupate una quindicina di persone e producevano cordini intrecciati con le “lesche”, alte erbe palustri.
Proprio recentemente, la signora Maria Benedetto , classe 1929 (deceduta in questi giorni), mi aveva confermato di essere stata assunta da Rittatore a 12 anni e vi rimase fino al compimento dei 14; erano “cape” le sorelle Fumero, zie materne delle sorelle Villa (tutte ormai scomparse). Lavoravano questo materiale su un telaio ed i cordini venivano poi arrotolati da un macchinario: la lavorazione veniva eseguita nella casa di don Rodolfo e nei sotterranei dell’Ospizio e questi prodotti erano utilizzati anche come coperture per i “camion dei tedeschi”.
Con lei, per qualche tempo, aveva lavorato Maria Alloatti Chiaradia, classe 1928. Il suo racconto è particolare: “Con un camion raggiungevamo una zona paludosa, un acquitrino dalle parti di Tetti Faule e Borgo Cornalese; indossavamo stivaloni di gomma per entrare in acqua, recidevamo le erbe alla base della radice e tornavamo con il carico. Queste erbe, asciutte, venivano poi fatte scorrere in una canalina per ritorcerle e farne cordini. Lasciai questo lavoro per entrare nel Lanificio ma Rittatore chiuse per fallimento.”
Ho fatto cenno di questo argomento a “gente di campagna”: tutti conoscono queste “lesche” che venivano recise lasciando però la radice e fatte essiccare per due-tre giorni sull’aia; legate in piccoli fasci, erano poi utilizzate per fare cordini ma anche per impagliare sedie, fiaschi, damigiane. Giovanni Bergese al riguardo ha segnalato che di cascina in cascina si recavano i “cadreghé” non solo per impagliare le sedie ma per costruirle con il legno dei gelsi (moré) abbattuti dagli stessi contadini. Queste “visite” non erano però casuali: specie per fabbricare le sedie si stabilivano i tempi con anticipo, anche l’anno precedente, per far sì che il legno fosse sufficientemente “stagionato”.
COME ERAVAMO – Rubrica a cura di Marilena Cavallero